RITA MASCIALINO, LA TETRALOGIA POETICA DI PASOLINI ‘A ME FRADI’: ANALISI E INTERPRETAZIONE

RITA MASCIALINO, LA TETRALOGIA POETICA DI PASOLINI ‘A ME FRADI’: ANALISI E INTERPRETAZIONE

A proposito dell’assassinio perpetrato nel Bosco Romagno, Friuli Orientale, durante la Resistenza nel febbraio del 1945 nei confronti del fratello Guido, Ermes nel nome di battaglia, mentre era in forza all’avamposto osovano di Porzûs stante al comando del Capitano Francesco De Gregori a difesa sia dai nazifascisti sia del confine orientale del Friuli, Pier Paolo Pasolini scrisse una tetralogia in lingua friulana che sta tra le più toccanti e profonde liriche lasciate in eredità dal poeta. Si tratta di composizioni che, focalizzate sull’evento biografico che funge loro da tragica base, sfumano lo stesso in modo tale da farlo divenire sul piano simbolico evento universale, emblema dell’esistere di tutti sospeso tra gli opposti poli di vita e morte al di là delle contingenze storiche, biografiche, culturali e sociopolitiche in generale, di colpevolezza o meno e pone l’accento sul fatto che chi muore versa spesso sangue innocente, per chiarire con un esempio tratto dalle leggi umane e non solo dalla biografia di Pasolini: spesso non commette nessun reato per essere per così dire punito con la morte e comunque la morte non è certo evento fonte di letizia nella vita dell’uomo.

Prima di passare all’analisi, una doverosa parola introduttiva sulla lingua friulana in cui è composta la tetralogia, la lingua madre di Pasolini, di sua madre, del suo gruppo etnico e culturale di origine cui lo scrittore si sentì sempre profondamente legato. La tetralogia, sentita e ideata in friulano, è stata successivamente tradotto in italiano dal poeta stesso, traduzione che sta nel testo citato in calce ad ogni poesia.

Le lingue, maggiori o minori che siano, sono la carta d’identità psicologica e la memoria storica e preistorica, sincronica e diacronica dei popoli e come tali influiscono a loro volta direttamente sulla sensibilità e intelligenza degli individui che in esse vengono addestrati. Ora Pasolini era un appassionato del friulano in cui riconosceva la matrice più originaria e più vera della propria personalità, l’appartenenza alla cultura della madre e in particolare in questo tragico frangente il friulano funge da legame indissolubile con il fratello morto. Il dolore lacerante ha tolto all’uomo e al poeta ogni sovrastruttura culturale acquisita fuori dalla casa materna e ha pertanto trovato la più spontanea e profonda espressione non nella lingua italiana, per così dire una lingua straniera rispetto al friulano e sovrapposta all’originario sentire di chi è stato educato in questa parlata, appunto nella parlata di casa. Per chiarire: la lingua italiana, nel caso di emozioni tanto estreme, avrebbe funto da schermo e da filtro alle emozioni stesse, schermo smantellato dalla sofferenza più grande, così che le emozioni hanno vestito l’abito della mai dimenticata sensibilità codificata ed espressa dal friulano, precedente ad ogni altra cultura definibile come sovrastruttura in quanto sovrapposta alla cultura di base rappresentata dalla visione del mondo portata ad espressione dalla lingua friulana e sempre conservata a memoria degli affetti più profondi. In questo caso se la traduzione italiana rende senz’altro l’idea e l’emozione di quanto Pasolini ha voluto esprimere, il testo friulano resta portatore della personalità più originaria e indelebile data dal friulano all’uomo Pasolini, al poeta, all’artista, a queste poesie. Si tratta di un’emotività, quella intrinseca alla lingua friulana, che si presenta priva, per così dire, dell’abito di gala che sempre le lingue nazionali vestono rispetto al più umile abito delle lingue minori tali per il minore potere che esse rappresentano nella società umana e per il minore sviluppo nel tempo storico. Sempre le traduzioni cambiano o poco o tanto, dipende dal traduttore, l’emozionalità profonda intrinseca agli idiomi, ma questo accade in misura ancora maggiore quando il dislivello si ha tra una lingua minore ad una maggiore. E veramente il friulano qui evidenzia in modo magistrale ed emblematico le sue caratteristiche di base che non sono quelle proprie dell’italiano, caratteristiche che non si hanno o si perdono nella lingua ufficiale italiana, più aristocratica, più di rappresentanza per così dire. Do un cenno relativamente ad un solo importante tratto del friulano, al quale sono direttamente collegate alcune caratteristiche fondamentali della personalità del popolo che parla questo idioma. Il tratto in questione riguarda i suoni specifici del friulano. Sono suoni che si sono formati e si formano in assenza di enfasi come la loro asciuttezza e scarsa colorazione evidenziano. I suoni intrinseci al friulano si rivelano di conseguenza anche non particolarmente adatti ad esprimere sentimentalismi in estetica di superficie, sono suoni che si rivelano idonei al contrario ad esprimere un senso del reale lontano da illusioni qualsiasi. Espressi in tali suoni per nulla appariscenti, gli affetti hanno il tono della contenutezza che dà significato all’accettazione di una interpretazione della vita non immessa in epopee di gloria o vanagloria e priva di eco nel grandioso di apparenza, in quanto tale sempre artificiale, così che quando i sentimenti e gli affetti premono forti e intensi, essi si manifestano di consueto nell’ordine, nella compostezza, senza straripamenti, un po’ come tenendo duro, come vuole la personalità del popolo friulano in generale. Così, ad esempio, l’idioma friulano fa coincidere, al di là di altri possibili modi di esprimere il concetto del parlare e del chiacchierare corrispondenti a diverso significato, appunto il parlare con il chiacchierare nel verbo ciacarà, che significa parlare, non come ironia, ma come normale parlare, e anche chiacchierare, quasi i discorsi siano affini alle chiacchiere in questa ottica rispetto alla necessità delle cose, dei fatti, della concreta realtà dell’esistenza – così il popolo friulano è connotato dalla chiusura di carattere, dalle poche parole. Questa mentalità scarsa davvero di superfluo si trova anche nelle parole di Pasolini a celebrazione del fratello assassinato, le quali per questo ottengono la massima incisività e pregnanza semantico-emozionale, sfumata nella traduzione italiana pur eseguita dal poeta stesso al meglio possibile.

Facciamo precedere la breve analisi dei tratti fondamentali della tetralogia dal titolo A me fradi dal testo.

A ME FRADI
A mio fratello
Incarnation
I vin disfat i secui
Inciarnansi tal mondo,
ciatansi cun un cuarp
ch’al è infinit e unic.

A si è sierat l’ombrena
Davour li nustris spalis,
di nuja doventas
òmis ta un timp imens.

A son un sun i secui
Devant na nustra ongula.
Ciar i sin fas par sempri.
Nustri mar a era virzina.

Incarnazione
Abbiamo disfatto i secoli/incarnandoci nel mondo,/trovandoci con un corpo/ che è infinito e unico.//Si è chiusa l’ombra/dietro le nostre spalle,/dal nulla diventati/uomini in un tempo immenso.//Sono un sogno i secoli/davanti a una nostra unghia./Carne siamo fatti per sempre./Nostra madre era vergine.//

Passion
Subit la muart a limita
Il timp, la lus, la sera.
A cola na fuejuta
Dut il mond al è muart.

Dut ator tal to cuarp
A si figura il nuja;
là ch’al finis il cuarp
ulì a scuminsia il seil.

Al scuminsia un seil trist
mai jodut mai pensat,
ulì tu i no ti sos,
e al ti tocia i ciavej.

Passione
Subito la morte limita/il tempo, la luce, la sera./Cade una fogliolina/tutto il mondo è morto.//Tutto attorno al tuo corpo/prende forma il nulla;/là dove finisce il corpo,/lì comincia il cielo.//Comincia un cielo triste/mai visto mai pensato,/lì tu non ci sei,/e ti tocca i capelli.//

Muart
Crist al à rifiutat
che dols muart di ogni dì;
e la so Crous teribila
a è stat disimintiassi.

Voluntat no pì umana
di lassà chel dols vivi
cun lui stes e so mari
e so fradi tal mond.

O sant sanc innossent,
pojat cu-t-un dolour
che doma un zovin vif
al pos trimant capilu.

Morte
Cristo ha rifiutato/quella dolce morte di ogni giorno;/e la sua Croce terribile/è stata dimenticarsi.//Volontà non più umana/di lasciare quel dolce vivere/con se stesso e con sua madre/e suo fratello nel mondo.//O santo sangue innocente,/disteso con un dolore/che solo un giovane vivo/può tremando capirlo.//

Ressuretion
Me fradi muart al ten
na part di me cun lui
ta chel trist Infinit
ch’al mi scrussia ogni dì.

Un sofli al mi divit
Da lui, e un scur misteri;
qua ch’a brilin lis stelis,
mi lu figuri dongia.

I sint il so respir
tai me ciavej, e il nuja,
una lus infinida
a è dut un cu’l so vuli.

Resurrezione
Mio fratello morto tiene/una parte di me con lui/in quel triste Infinito/che mi angoscia ogni giorno.//Un soffio mi divide/da lui,e uno scuro mistero;/quando brillano le stelle,/me lo immagino accanto.//Sento il suo respiro/nei miei capelli, e il nulla,/una luce infinita/è tutt’uno con il suo occhio.//

Le poesie dunque, come indicano i titoli, hanno struttura echeggiante molto direttamente lo schema esistenziale di Cristo. Pasolini era ateo, come è esplicito anche nelle stesse liriche in questione. Che senso può avere quindi una struttura religiosa? Forse l’autore ha comunque cercato conforto nella religione a fronte del dolore lancinante per la morte del fratello? Avviene in questo ciclo un ribaltamento della più consueta spazialità: nella tetralogia la struttura religiosa non è finalizzata a porre la morte del fratello in un ambiente di concetti e sentimenti religiosi, al contrario essa riceve dal contesto dimensione e orizzonte totalmente umani e Cristo stesso diviene solo uomo. Se tuttavia tale struttura umanizza del tutto l’ambito religioso nella fattispecie biblico-cristiano, certamente essa non è stata utilizzata dal poeta con la finalità ultima di umanizzare la religione, ciò di cui non c’è traccia nella tetralogia. La motivazione per la pur concretamente presente associazione religiosa è altra. Nel sacrificio di Cristo Pasolini vede un uomo tradito dal suo gruppo etnico di appartenenza, dagli ebrei stessi ormai caduti sotto la dominazione dei Romani e agli ordini del prefetto romano Ponzio Pilato. Ciò sta in più di qualche parallelo con quanto accadde al fratello di Pasolini, osovano ucciso da fratelli italiani e in particolare da fratelli in linea di massima friulani che condividevano l’ideologia comunista di Pier Paolo, da suoi fratelli ideali. Grazie a tale parallelo storico in Cristo, Pasolini poté non essere solo a sopportare questa doppia tragedia, poté trovare conforto nella vicenda di Cristo, un uomo che visse una simile parabola esistenziale, tradito dal suo gruppo, abbandonato da tutti, dal padre stesso. Partendo da questo parallelo, Cristo diventa nella tetralogia pasoliniana simbolo dell’uomo martire su questa Terra, combattuto da ogni parte, non capito neanche dai suoi compagni – Pietro stesso lo tradisce tre volte prima di unirsi a lui nel sacrificio. Il farsi carne e nascere, la sofferenza che accompagna l’esistere, la morte come evento della massima tragicità subìto dall’uomo come vero e proprio assassinio non voluto e per il possibile sfuggito, perpetrato contro la sua volontà che è quella di vivere per sempre, ben si adattano ai concetti di incarnazione, passione e morte. La quarta composizione dedicata alla resurrezione completa il breve intensissimo ciclo in piena coerenza con le precedenti parti. Non si tratta di una nuova vita spirituale nell’al di là, come la religione promette ai credenti, la resurrezione avviene sul piano del più triste e devastante ossimoro: il fratello Guido risorge sì, ma nel buio della notte che nasconde le forme e i colori della vita ed assume così l’aspetto della morte di ogni cosa. Nell’immaginazione del fratello vivente, il fratello morto è una presenza che fa tutt’uno con il nulla, il cui occhio si fonde in Pasolini ormai con l’occhio del fratello, un occhio spaventoso che guarda nell’oscurità senza vedere, dotato della luce infinita che proviene dalla non vita, dagli elementi inanimati, dagli elementi indifferenti alla vita. In altri termini: in questa oltremodo tragica resurrezione domina la morte e ha vita la triste nostalgia per chi non c’è più e non ci sarà mai più. La forza dell’immaginazione di chi è rimasto in vita può ricordare e far rivivere il morto, per eccellenza la potenza dell’immaginazione poetica, artistica, che dà composizione al destino dell’uomo rendendolo eterno, di quell’eternità destinata a durare fino a che la vita umana rimarrà su questa Terra. Certo, il poeta si immagina il fratello vicino a sé, ma appunto lo immagina come presenza sinistra del nulla in cui egli stesso si rispecchia, nulla in quanto il fratello non c’è altro che nel suo ricordo cantato dalla poesia, da sempre somma eternatrice della memoria dell’uomo.

Dopo il breve cenno al senso globale e sintetico della tetralogia, passiamo ora ad un cenno di analisi della risonanza semantico-emozionale che gli eventi esistenziali anno suscitato nelle composizioni.

In Incarnation, Incarnazione, il protagonista è il tempo immenso la cui presenza si disfa con l’uscita della vita che lo squarcia distruggendo la sua quiete più immota. Il corpo di ciascun essere vivente esce dal tempo differenziato portandone con sé a memoria del suo destino il tratto più sinistro, l’infinito che coincide con la fine dell’esistere, così che la vita risulta già all’origine proveniente dalla morte, intessuta di morte. Il nulla coincidente con il corpo, l’oscurità che si chiude dietro le spalle appaiono come la casa originaria da cui esce il vivente connotato dal nulla che si porta addosso senza potersene liberare al di là di qualsiasi apparenza e a cui è implicito che debba ritornare alla fine della sua parabola come alla sua casa più vera, per tornare ad essere nulla e disfatto nel nulla. Una semplice unghia di un corpo vivo fa risultare il tempo, i secoli tutti, come un sogno ed un sonno lungo, secondo la suggestiva allitterazione onomatopeica che contrassegna il verso così che secoli, sogni e sonno sono un unico sospiro di cui si sente quasi il fruscio. Si tratta di qualcosa che non ha esistenza, un’unghia simbolica della pochezza degli esseri viventi e nel contempo della grande potenza intrinseca alla vita capace di squarciare l’immobilità e l’immensità del tempo, il suo nulla senza la vita. E una volta viventi, non si può tornare indietro al prima, all’indifferenziato, al tempo in cui ancora non aveva avuto origine la vita, bisogna vivere come un dovere ineludibile, carne per sempre, l’unica forma di vita possibile per gli umani secondo la visione laica del mondo in possesso di Pasolini, una forma per la vita e per la morte. La madre vergine richiama Maria – il “nostra” si riferisce alla madre di ogni uomo come di Cristo, ma in particolare alla madre di Pasolini e del fratello ed è quindi anche la grande madre friulana vista con gli occhi e il cuore del poeta come la custode e rappresentante più pura della più grande forza data dai più puri affetti e sentimenti, dall’amore più incontaminato intrinseco all’essere madre.

In Passion, Passione, si fa immediatamente avanti nel primo verso, il dolore più grande, la morte chiamata con il suo nome, la quale dà un tempo limitato alla vita, all’individuazione del vivente, alla luce, all’oscurità stessa. È una morte capace di scuotere, con la tragedia che introduce nel fenomeno dell’esistere, il mondo intero ogni volta che un vivente cade come una fogliolina dall’albero della vita per entrare nel nulla che attende e che attornia da ogni parte il corpo incarnato come una voragine da cui può uscire una volta lacerandone per così dire il grembo. Anche il cielo si fa in Pasolini simbolo del nulla, del vuoto per eccellenza ed è pertanto un cielo non azzurro, non lieto, bensì triste e che nessuno può vedere mai né pensare propriamente. I morti sono nel nulla e il nulla della vita nessuno lo può vedere né pensare, un nulla che resta ignoto ai morti e ai viventi che dal nulla sono circondati, che nel nulla vivono. In quel cielo privo di ogni vita il fratello morto non c’è, ci sono i simbolici capelli che sono ormai in potere della morte e ne mostrano metaforicamente il potere – nel corpo morto i capelli crescono ancora ed in quanto crescono nella morte collegano il simbolico cielo alla morte, al nulla.

In Muart, Morte, il Cristo pasoliniano non è morto per salvare l’umanità, ma ha niente meno che rifiutato la vita e la sua croce più tremenda è stata proprio il dimenticarsi della vita in cui si muore ogni giorno di quella morte, di quel dolore dolce che permette di vivere nel mondo gli affetti più cari accanto alla madre e al fratello sapendo che si perderanno comunque un giorno. La languidezza degli affetti dunque sentita come dolce sofferenza implicita alla consapevolezza di doverli abbandonare è una felicità troppo pesante a sopportarsi così che la vita stessa viene rifiutata e ad essa viene preferita la croce come simbolo di morte non dolce, ma di dolore. Da sottolineare: le uniche parole scritte con la maiuscola nel corso della tetralogia sono la Croce, in Muart, e l’Infinito in Resurretion, l’ultima parte del poemetto, quasi il dolore sia l’unica cosa che duri anche dopo la morte e l’assenza della vita. In altri termini: la vita viene percepita solo, leopardianamente e sulla scia del sentire del poeta Miguel de Unamuno sul nulla e sul dolore di vivere, come sofferenza cui nulla possa porre sollievo, neanche la morte stessa – la successione delle due parti vede il triste Infinito seguire la morte e la Croce emergere in pieno primo piano nella Resurrezione che vede permanere solo il dolore di chi è ancora in vita e non vede risorgere il morto. E la sofferenza dovuta alla morte cruenta di un innocente non lo può capire certo il nulla che attende indifferente la fine di ogni vita, ma solo una persona giovane, in carne ed ossa, viva, tremante dallo spavento e dal dolore, ossia un giovane che in quanto tale abbia ancora il cuore non indurito dalla vita stessa, possa ancora spaventarsi dell’orrore della morte, possa ancora tremare di paura e anche e soprattutto di emozione.

In Resurretion, Resurrezione, il poeta parla direttamente del proprio fratello morto che ha portato con sé, nella morte, una parte di lui stesso così che essa lo lega al nulla di cui tutti sono fatti e in cui il fratello si è dissolto, come anticipato nella prima composizione Incarnation. Il soffio che lo divide dal fratello richiama sul piano implicito l’animazione misteriosa e oscura della materia da parte di Dio, il soffio che lo divide dal fratello è proprio il soffio che dà la vita e di cui il fratello è ormai privato per sempre. E soprattutto quando le stelle salgono in cielo, quindi nella notte più buia, il poeta può sentire con la potenza della sua immaginazione il suo respiro nei suoi capelli e di nuovo i capelli uniscono come sinistro Leitmotiv la vita alla morte come intreccio indistricabile, mentre l’occhio del fratello lo guarda in un’immagine sinistra più che mai con la luce infinita degli occhi del nulla nel buio, questo nello splendido e terrificante ossimoro poetico – l’amore del poeta per il fratello non cancella l’orrore del nulla, ma anzi lo esalta.

La vita dunque appare ovunque a Pasolini in questa composizione quadripartita come qualcosa che proviene dal nulla e ritorna al nulla che – come nei filosofi presocratici e nella mitologia greca – attende di ricucire lo strappo dovuto all’uscita della vita da esso con il rientro dei viventi là da dove nessuno e niente potrà mai più uscire.

Nella tetralogia pasoliniana emerge comunque e anche in modo del tutto concreto come ciò che di buono stia nell’esistere sia rappresentato dagli affetti più semplici, nella loro veste di affetti familiari, della famiglia. A quei dolci affetti tra figlio, madre e fratello, Cristo dovette rinunciare per un motivo insito alla sua vicenda terrena, così che abbandonò il focolare, la madre, i fratelli. Nel poemetto non viene citato esplicitamente in nessuna forma il padre sul doppio binario della vita terrena come padre di Pasolini e celeste nella metafora. Implicito a ciò è il non amore per un padre che crea l’infelicità dei suoi figli e non se ne occupa più, lasciandoli soli e condannandoli al nulla, solitudine che diviene al contrario dolce sofferenza nella madre solo terrena e nei suoi figli che paiono essere solo suoi e di nessun altro degno del nome di genitore. Per altro il sangue innocente è immemore del peccato originale dovuto alla condanna divina la quale che non ha nessun valore per il poeta e la quale anzi in quanto tale solo accentua l’eventuale mancanza di amore in un eventuale padre divino. Anche Pasolini come Cristo ha scelto di prendere su di sé la croce terribile di aver dovuto dimenticare tale nucleo affettivo per la sua missione, nella fattispecie non religiosa, ma artistica e sociale, questo in una volontà che anche nel poeta non ha più nulla di umano, di dolcemente affettivo. E questa volontà non più umana di abbandonare una vita da viversi protetti entro la dolcezza degli affetti familiari rende triste e disperata la vita per sempre, dà ad essa il contrassegno della diversità vissuto da Pasolini sul piano personale più tragico.

Così nella tetralogia poetica di Pasolini a memoria della vita spezzata del fratello e a memoria devastante della parabola dell’esistere.

                                                                                                                                                             Rita Mascialino

PASOLINI, P.P.
1975 (ottobre-dicembre) A me fradi. In Sot la nape: 5-6.



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