RITA MASCIALINO, LEONARDO: IL CONCETTO DEL PIACERE – ANALISI E INTERPRETAZIONE

RITA MASCIALINO, LEONARDO: IL CONCETTO DEL PIACERE – ANALISI E INTERPRETAZIONE

Omaggio a Leonardo da Vinci in occasione del cinquecentesimo anniversario della sua morte (1519/2019)

La filosofia morale di Leonardo da Vinci non si trova riunita in trattati, ma sta sparsa in riflessioni che spesso hanno la brevità e anche la lapidarietà di massime o di aforismi, né hanno finalità qualsiasi di organicità, bensì sono frutto di una successione cronologica frammentata secondo l’ispirazione del momento. Ad una lettura continuativa di tali riflessioni ne affiora comunque un’articolazione capace di dare vita ad una Weltanschauung coerente nelle sue molteplici componenti e inseribile in una personalità evoluta.

Lo studio evidenzia come i pensieri di filosofia morale di Leonardo da Vinci, che verranno presentati di seguito, corrispondano ad alcuni principi fondamentali dell’Umanesimo: autodisciplina; moralità sulla base del giudizio della ragione e del senso di umanità verso il prossimo; consapevolezza del diritto dell’uomo alla gioia sulla Terra entro i limiti concessi da autodisciplina e giudizio della ragione; interesse per una cultura e una democrazia intese verso l’alto in base ai principi testé citati.

Ci occuperemo centralmente di un pensiero di filosofia morale che sta in relazione in particolare con due ulteriori pensieri di filosofia morale leonardeschi e che si rivela in grado di fungere da perno profondo dell’ottica morale di Leonardo. Si tratta del concetto di piacere.

Il pensiero in questione si trova a conclusione di un’argomentazione incentrata sulla vicenda relativa al monumento equestre di Francesco Sforza commissionato a Leonardo e rimasto per diversi motivi incompiuto nonché andato distrutto, la quale si riferisce all’impossibilità, per quanto varie potessero anche essere le soluzioni prospettate, di eseguire il monumento in modo tale che fosse impossibile asportarlo o demolirlo. Le difficoltà insorte al proposito soprattutto in relazione ai desideri dello Sforza hanno indotto Leonardo a produrre il pensiero in questione inerente all’inutilità di tutti gli sforzi possibili unita all’amarezza e malinconia a ciò conseguente. Eccone il testo:

“Fa come ti piace, che ogni cosa ha la sua morte.” (Leonardo in De Micheli a cura di 1964: 12)

Se si affrontasse l’interpretazione di un tale concetto secondo l’ottica più immediata, esso apparirebbe come un invito a vivere seguendo i piaceri della vita, senza soverchi imperativi e preoccupazioni morali, dato che tutto finisce per sempre, ciò che basterebbe quindi a togliere valore ad ogni cosa. Interpretandolo con un’ottica più adatta a comprendere il significato delle parole, i risultati sono diversi come andiamo ora a vedere in qualche dettaglio.

Entro la prospettiva dell’analisi semantica del testo la forma dell’imperativo “Fa” posta all’inizio del pensiero, non corrisponde in pieno alla funzione direttiva pur rappresentata a livello grammaticale, ma è più da intendere, come è intrinseco alla forma imperativa secondo i contesti, quale invito o autorizzazione a seguire le proprie inclinazioni naturali che possano produrre piacere in quanto attitudini, desideri di fare cose che piacciono. All’imperativo iniziale e alla secondaria modale relativa all’invito o al permesso segue una secondaria che esplicita la premessa la motivazione a monte dell’ordine-invito. Semplicemente parafrasando: “Poiché tutto finisce, fa come ti piace”, o anche: “Nell’insensatezza generale l’unica cosa che conserva un senso è il fare come piace”. Ciò che è ora importante è capire in primo luogo a quali realtà possa corrispondere il concetto del piacere espresso da Leonardo nel pensiero in analisi, dal momento che queste realtà non sono direttamente esplicitate e possono pertanto, senza conveniente analisi, più facilmente dare adito a equivoci.

Il fa come ti piace si colloca parallelamente alle forme cosiddette sinonimiche fa come vuoi, fa come ti pare, fa come ti pare e piace, ma non coincide con esse e anzi, come vedremo, ne è sostanzialmente diverso – non esistono propriamente sinonimi, ad ogni termine corrisponde un’interpretazione diversa del medesimo ambito concettuale, magari e anche spesso solo per una sfumatura, ma comunque per una diversità, essendo il sinonimo frutto di una diversa prospettiva sulla medesima realtà, in caso contrario esisterebbero solo un termine e una interpretazione del reale per quanto anch’essi inevitabilmente sfaccettati. Sul termine scelto da Leonardo da Vinci torneremo più in dettaglio fra poco.

Il fa come vuoi rimanda alla presenza esplicita di una volontà e la presenza di una volontà implica di per sé anche la possibilità di imposizione di una volontà su quella di altri, di egoistico arbitrio anche a scapito e prevaricazione dei diritti di altri, tanto è vero che in genere nell’uso del verbo volere si preferisce sostituire la forma al presente voglio con la forma vorrei, dove il condizionale ovvia al significato di potenziale prepotenza. Il fa come vuoi, in genere, si usa in un contesto semantico-emozionale relativo o a una totale autorizzazione ad agire secondo le proprie finalità o a un non interessamento verso l’interlocutore da parte di chi proferisce la frase in questione, talora anche alla presenza di un suo – implicito – disaccordo con le intenzioni dell’altro che così viene a trovarsi libero di fare ciò che vuole a prescindere dal fatto che gli altri approvino o meno. Tale modo di dire può anche essere unito a una sottaciuta mancanza di aiuto in caso l’azione porti conseguenze indesiderate. Il fa come vuoi comporta in ogni caso l’interruzione di un interscambio vicendevole coinvolgente reciprocamente più parti e l’instaurazione della possibilità di realizzazione della volontà da parte di colui cui si indirizza la frase stessa.

Il fa come ti pare non mette in primo piano la volontà dell’altro – il verbo parere sottolinea la soggettività dell’intenzione e della percezione –, ma esprime comunque una affine situazione di disinteresse e anche di più manifesto disaccordo.

Il fa come ti pare e piace rimarca la disposizione appena evidenziata di accordo o disaccordo, ma può avere anche un ulteriore significato: quello di autorizzare l’altro ad agire secondo il proprio comodo senza tenere conto di niente e di nessuno, anche quasi sia un ordine o un permesso di spadroneggiare in barba agli altri.

Tornando al “Fa come ti piace”, malgrado la somiglianza di superficie alle forme citate le cose sono diverse. A tale verbo non sono impliciti alcuna forma di volontà, né lo stato interiore di genericità dell’intenzione intrinseco a parere, né quello di arroganza espresso da parere unito a piacere. Tale forma indica al contrario lo stato di gradimento, di gioia e di piacere che si possono avere dalla vita e a esso è intrinseca una base oggettiva di positività. Questa ha verosimilmente la sua origine in un comportamento essenziale per la vita stessa, quello relativo al nutrirsi visto dall’angolazione della parte che si nutre: se la cellula in linea di principio assume le sostanze utili alla sua sopravvivenza, ossia accoglie, è disponibile verso ciò che è positivo per la sua esistenza e non assume o rifiuta quelle nocive, ai piccoli degli umani la positività degli alimenti viene insegnata proprio attraverso il filtro del piacere, ossia i genitori in generale li stimolano a mangiare scegliendo loro i cibi che più possano piacere e invogliandoli didatticamente a gioire di un sapore o l’altro, ciò che implica non solo una naturale legittimità dell’azione rappresentata dal verbo piacere nell’esistere, ma anche ed ancora prima una sua sintonia con le esigenze fondamentali della vita – anche la sfera del godimento sessuale fa parte, al centro della perpetuazione della vita, dell’ambito proprio di tale verbo. Per altro il verbo piacere, nella forma tedesca gefallen ad esempio, seppure non consona al gradimento dei cibi, ma adatta al gradimento estetico in senso lato e sessuale, mostra più evidente nella sua etimologia il collegamento con quanto è assegnato, ossia cade e spetta, tocca di diritto a ciascuno e quindi piace ed in quella inglese to like mostra come quanto piace, piaccia per la somiglianza con il soggetto che ha forma – ovviamente interiore – simile ad esso, per cui piace spontaneamente. In tutti i casi comunque è evidente la base formata dal diritto ad avere la gioia che  può provenire dalla naturalità delle cose, che spetta, che è assegnata, che tocca a ciascuno, che più corrisponde alla propria natura, alle proprie attitudini. Certo, avendo gli umani a disposizione una libertà di scelta comportamentale molto maggiore rispetto a quella in possesso degli altri animali, gli ambiti relativi al verbo piacere si sono moltiplicati e sono diventati anche molto diversi da quelli della sua origine, ma ciò sempre sulla scia del suo campo più primitivo e fondamentale.

Quanto al tipo di ordine, si tratta propriamente di un invito a scegliere le cose non secondo la arbitrarietà potenzialmente intrinseca a volere, parere e piacere connessi come sopra, bensì secondo l’individualità delle proprie attitudini, del proprio gusto, secondo la propria disposizione. La motivazione oggettiva a monte di tale ordine o invito o autorizzazione viene data dalla frase che segue. In questa secondaria causale – il “che” va inteso come un perché o poiché o dal momento che – è presente il quantificatore universale “ogni” il quale, riferendosi a tutte le cose, rafforza, a prescindere dal fatto contingente che possa avere stimolato la riflessione, la valenza universale dell’invito. In altri termini: le difficoltà relative all’esecuzione del monumento sforzesco sono da Leonardo lasciate alle spalle e per intero si schiude un orizzonte più vasto di quello particolare relativo allo sfogo inerente alla vicenda del monumento, ossia quello dell’umano esistere. È entro tale orizzonte universale che Leonardo rivendica il diritto dell’uomo ad agire secondo quanto gli può dare piacere e quindi lo può sostenere nella vita. Certo questa posizione rimanda ad una non credenza in castighi e premi elargibili dall’esterno – non vi è alcuna allusione neppure a livello implicito a maestri, genitori, divinità e simili –, ma neppure vi è in essa un invito all’esercizio della leggerezza dei costumi e all’amore per gli eccessi, bensì si inserisce una sfumatura di sofferenza indivisibile dalla consapevolezza della caducità della vita – vedi presenza esplicita della morte. Per altro la pacatezza e la malinconia fanno in genere parte dell’atteggiamento che accompagna l’esercizio dell’introspezione che a sua volta, eventualmente, lascia inferire la possibilità di una scrupolosità morale, non di una immoralità.

Mostriamo ora in dettaglio, seppure brevemente, su quali osservazioni poggi il giudizio appena emesso, dal momento che nel messaggio non vi è alcun esplicito richiamo alla pacatezza né alla malinconia. Partiamo dal dato di fatto secondo il quale ogni discorso ha un’intonazione che gli appartiene originariamente e che l’identificazione di questa può contribuire sostanzialmente a fare interpretare il messaggio nella direzione più corretta, più consona, questo talora anche in contrasto con il contenuto semantico esplicito come è, tra l’altro, spesso il caso dell’ironia o della significatio o allusione. Nel caso in questione il discorso è scritto e l’intonazione deve essere inferita dal momento che il tono con cui esso è stato pronunciato, in concreto o mentalmente, non si può udire. Possiamo anche immaginare un accento toscaneggiante, di per sé più o meno gagliardo, ma anche in questo caso l’intonazione dell’intero eloquio non evita di essere verosimilmente decrescente e rallentata. Dunque dopo l’imperativo del verbo fare che, come prima sillaba su cui cade l’accento, pretende una certa energia per essere pronunciata, si hanno tre sillabe indebolite che si appoggiano verso una nuova sillaba tonica, la prima di “piace” che tuttavia ha tono di intensità inferiore a quello della sillaba iniziale, quasi costituisca una sosta di espansione quale battuta successiva a sillabe pronunciate in tono indebolito rispetto alla prima. A questa seconda sillaba tonica seguono altre tre sillabe indebolite – sinalefe o fusione della e di “che” e della o di “ogni” – da pronunciarsi senza enfasi e con tono decrescente rispetto alla seconda sillaba tonica già essa stessa meno forte della prima. Lo stesso accade con la prima sillaba di “cosa” e le tre successive – sinalefe di “cosa” e “ha” – e con la prima di “morte”, questa quasi come un giambo sommesso, sillabe che sono pronunciate in tono comunque decrescente secondo l’ipotesi qui presentata.

Onde rimarcare e confermare tale ipotesi, è opportuno prendere in considerazione e illustrare, per quanto brevemente, le ipotesi che si potrebbero fare in sostituzione come falsificazione dell’ipotesi qui sostenuta. Se si volesse dunque sostenere che le frasi e le sillabe del periodo non siano pronunciate in tono decrescente, si potrebbe affermare che siano proferite su una medesima nota e altezza ed allora ci troveremmo di fronte ad un eloquio meccanico, quasi da robot, per altro non consono al tipo di musicalità proprio della norma della lingua italiana e comunque anche in tale caso si dovrebbero trovare la giustificazione, la motivazione della citata meccanicità e nel periodo  in questione non vi sono neanche lontani indizi per una meccanicità espressiva che toglierebbe qualsiasi senso all’eloquio tranne che nel caso di una intonazione da parte di un estraneo incaricato di leggere, magari a scuola o in simili situazioni di neutralità emotiva e di noia, di disinteresse. Se si volesse poi ipotizzare che, all’interno dell’alternanza tra sillabe toniche e meno toniche, le sillabe toniche non siano pronunciate in tono decrescente, ma con forza uguale a quella profusa nella pronuncia della prima, ci si troverebbe di fronte all’eloquio di una persona che passasse quattro volte in un’unica brevissima serie di sillabe da un registro sommesso ad altro che apparirebbe gridato, anche ciò in ogni caso da giustificare e motivare, nello specifico contesto sarebbe un individuo in preda ad uno squilibrio emotivo. Infine, per un crescendo: difficile immaginare che il termine “morte” posto alla fine sia pronunciato nel contesto con enfasi, magari gridato con rabbia.

Tornando ora all’intonazione ritenuta più consona al periodo, questo ha senso con il già citato andamento tipico del ripiegamento in se stessi, della non ribellione, della non trasgressione, della malinconica accettazione di ciò contro cui nulla si può, morte inclusa e in primo luogo, il tutto in tono assolutamente decrescente, come quando ci si rassegni ad un destino avverso e si smetta di lottare perché si è ormai stanchi dell’inutile battaglia. Si tratta dunque di gioie, quelle del piacere leonardesco nel periodo in analisi, che trovano spazio in una malinconica consapevolezza della caducità della vita, dell’umana impotenza, non inserite in un contesto di stati d’animo ispirati ai godimenti crassi, materiali, per rimanere nella metafora musicale: chiassosi.

Per evitare ancora che il verbo piacere presente nel pensiero di Leonardo possa essere interpretato in senso materiale, ritengo sia il caso di verificare ulteriormente a che tipo di gioia, in che tipo di più ampio contesto si riferisca il piacere cui fa riferimento Leonardo. All’uopo, come anticipato, si sono scelti due altri pensieri che si associano molto direttamente a questo come più esplicita specificazione dei valori e delle consuetudini morali in cui l’altro si pone. Il primo è il seguente:

“Ogni impedimento è distrutto dal rigore.” (Leonardo in De Micheli a cura di 1964: 118)

Diversamente dal concetto precedentemente presentato, dove l’atmosfera era quella di un progressivo ripiegamento su se stesso, qui siamo di fronte a qualcuno che avanza distruggendo tutte le insidie, tutte le difficoltà, come un esploratore, un pioniere – la presenza del verbo distruggere e dell’universalità riferita agli impedimenti conferisce a questi la dimensione della grandezza, anzi della massima grandezza possibile. Ora il rigore si radica in genere o sempre in un humus di valori positivi in quanto comporta l’esercizio di qualità che colui il quale ad esempio delinque non possiede – suonerebbe strano e comunque avrebbe una punta di ironia riferirsi ad un ladro affermando che abbia successo nei suoi furti in quanto si prepari al loro espletamento con rigore, questo solo per evidenziare come esista un collegamento del rigore alla capacità di sacrificio e di rinuncia ai piaceri materiali. Emerge quindi un collegamento con l’autodisciplina, una qualità morale di tutto rispetto. Il piacere, citato nel pensiero precedente, risulta coerentemente in un contesto più ampio un piacere sorretto dall’autodisciplina, quindi dalla capacità di rinuncia proprio ai piaceri materiali.

L’altro pensiero scelto, che specifica ulteriormente il tipo di piacere che fa parte della visione del mondo di Leonardo, è il seguente.

“Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.” (Leonardo in De Micheli a cura di 1964: 21)

La coscienza, la consapevolezza di avere agito bene e per il meglio danno la loro tonalità al piacere leonardesco, nulla quindi di basso o di materiale, di sguaiato, ma di pacato, di nuovo nella consapevolezza della caducità della vita che viene misurata come una singola breve giornata, dove la sera è metafora, consueta per altro, della morte – la sera come quiete, come silenzio, come metafora appunto della morte.
Proseguendo nell’analisi, i principi morali cui si riferisce Leonardo nei suoi pensieri non sono posti dall’esterno, come precetti cui obbedire, cui adeguarsi, ma sono conseguenza di una propria  riflessione, del proprio giudizio come in un rendiconto della giornata-vita. L’uomo di Leonardo giudica da sé la sua moralità, con il suo rigore e con la sua autoanalisi finalizzata ad avere la coscienza a posto. È un uomo libero, padrone della propria vita, capace di scrupoloso giudizio morale senza riferimenti a esseri superiori di cui non si ravvisa traccia nel contesto in analisi e in generale nel pensiero di Leonardo. È l’uomo umanista per eccellenza che parla in Leonardo, privo di illusioni e attento a vagliare le sue azioni alla fine di ogni giornata e della vita stessa, per controllare di avere agito con giustizia e di agire sempre meglio fino alla fine dei giorni. Ma allora il piacere leonardesco che cosa può essere se il rigore e l’autodisciplina, i più profondi principi morali lo limitano non poco? Qual è l’attitudine personale di Leonardo verso il piacere, attitudine che consiglia a tutta l’umanità nella breve esistenza? Può solo essere il più alto dei piaceri, quello derivato dalla conoscenza per ottenere la quale occorre distruggere ogni impedimento con il rigore e quello derivato dalla ricerca di operare il bene con il controllo costante delle proprie azioni perché siano e restino nel giusto – un umanesimo verso l’alto dunque, senza tuttavia evitare i piaceri della vita per così dire innocui, quelli che la rendono più dolce e accettabile a ogni uomo di buona volontà – come nella frase al centro di questa analisi se valutata in sé, senza gli agganci alle altre due frasi -, questo anche al di là di ogni conseguimento del più intenso piacere leonardesco dovuto al rigore capace di distruggere ogni ostacolo e di rendere la vita dignitosa.

L’umanista Leonardo dà all’uomo il suo esempio nei suoi pensieri di filosofia morale: seguire il piacere nella vita breve, certo, non fare violenza al piacere del vivere, ma si tratta di un piacere delle cose buone, che si sposa con la presenza di principi morali che lo controllano, con una sottile malinconia. Ed è proprio la presenza di una morte che pone termine a tutto per sempre a richiedere la massima moralità delle azioni non essendoci più per l’essere umano di Leonardo alcuna possibilità di rimediare al male operato su questa Terra, né con la credenza nel perdono divino, né con il pentimento dell’ultima ora, per ribadire: la presenza di una morte che pone fine per sempre alla vita togliendo all’uomo qualsiasi possibilità dopo il suo ingresso.

Riassumendo al termine di questa analisi risulta: come Leonardo abbia avuto una buona disposizione verso l’umanità che invita a godere della vita pur nei limiti che una visione del mondo buona ed elevata impone; come l’uomo servendosi dell’arma potente del rigore possa superare qualsiasi impedimento, ciò in cui sta l’umanesimo più alto rappresentato da Leonardo, l’istanza di libera autodeterminazione, la più forte autoconsapevolezza dell’uomo libero che si serve della sua ragione per conoscere; come sia soprattutto la morte che, conferendo essa la totale unicità e irripetibilità all’esistere, ponga l’uomo nel dovere assoluto di agire moralmente non avendo egli alcuna possibilità di rimediare a possibili crimini con le sopra citate scorciatoie a buon mercato.

Una morale, quella leonardesca, che non concede sconti a un individuo il quale, umanisticamente libero di seguire le proprie legittime attitudini, è il maggiore e più severo giudice di se stesso.

                                                                                                                                                             Rita Mascialino



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